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Mentre mi allontano, la poesia di Jon Fosse

Per «venire via dall’arte […] bisogna cancellare attentamente i confini che distinguono l’opera dal mondo che rimane. […] E l’artista è uno che se ne va dall’arte, a mani vuote, come se non avesse avuto niente da dire o niente da fare». Così si legge nella quarta di Invisibile pittura, di Corrado Costa. Similmente, nella prefazione di Andrea Romanzi all’edizione “Ascolterò gli angeli arrivare – Jon Fosse” edito Crocetti Editore si legge che Fosse è «[…] uno scrittore che tende a sparire tra gli spazi lasciati vuoti dalla propria lingua letteraria» . Aggiunge, l’autore è «nient’altro che colui che scrive», così facendo si dissolve all’interno del romanzo, senza che sia più possibile trovarne traccia. 

Eppure, sempre come notato in apertura nella prefazione di Romanzi, «Fosse è un autore che ama parlare di sé»: questa dicotomia, questa presenza assente, la troviamo nell’intera opera poetica. La sparizione dell’Io è spesso intesa a livello fisico: l’Io rimane solo come osservatore – ed è effettivamente la vista il senso predominante. Eppure, è proprio da queste descrizioni che emerge una condizione esistenziale personalissima: l’Io esiste, ma sparisce perché parte di una natura circostante che comunica a simboli. Come suggerisce l’antropologo Edoardo Kohn: si tratta di un’ecologia di sé; altre volte sparisce perché in movimento (come non fosse possibile vederlo per la grande velocità). Ma questo Io non è assente perché non esiste: è piuttosto assente perché è un Io che non agisce. Aggiungo: quasi mai è un Io che sente – più spesso è un Io che percepisce il circostante e, alla stregua di un dattilografo, lo annota. Questo preambolo per dire che la dimensione poetica di Fosse non è prettamente lirica, ma piuttosto post-lirica, una lirica dopo l’Io

Si può dire che questo renda l’Io di Fosse un Io in ascolto: l’ascolto del respiro del fiordo, del tempo che scorre e che quindi non è mai arrivato, ma anche degli angeli. Frequenti sono le apparizioni angeliche nella poesia di Fosse, e l’accostamento angelo-ascolto è ricollegabile alla preghiera. L’etimo della parola preghiera rimanda a precario, e nulla di più giusto potrebbe caratterizzare l’Io fossiano: è un Io precario perché immerso nel paradosso – altro topos ricorrente nell’opera. In questo senso la poesia fossiana diventa movimento, o sbilanciamento, verso la dimensione simbolica del reale, il visibile-non visibile: l’attimo che si perde battendo le palpebre, il movimento impercettibile.

Concludo citando nuovamente Corrado Costa: se «l’unico modo per avvicinarsi alle idee è il teatro», per Fosse la poesia è il punto di partenza – il reale da cui partire, il reale da lasciare.

Articolo di Fabrizio Pelli