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Nicolas Jaar ,la musica del sentire

Nicolas Jaar chiude due date all’Auditorium il 27 e 28 aprile

 

Nel clima formale della sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica, Nicolas Jaar ha regalato a Roma due date di puro godimento estatico.

 

Se è vero che nulla è dato al caso nell’improvvisazione, Jaar è l’esempio della cura al dettaglio di chi suona come se respirasse. A soli 34 anni il musicista cileno-americano ha già dato prova delle sue possibilità artistiche. Possibilità, perché la competenza in Jaar è qualcosa che arriva subito dopo l’esplorazione, come un sapere naturale che si manifesta al mutare delle condizioni ambientali. 

 

Influenzato da un vinile di Ricardo Villalobos, Jaar da il via alla sua carriera innestando i ritmi e le rimostranze politiche del Sud America (in particolare lo colpiranno profondamente le vicende della sua terra, il Cile, legata a doppio filo alla vita di Pinochet) nelle convenzioni armoniche della Grande Mela. Durante i suoi viaggi compositivi guarda all’Europa, nel 2010 inchioda l’Occidente capitalista pubblicando un singolo downtempo dal titolo che è una risibile contraddizione del mercato americano, Marks & Angels. Studia l’Oriente, ma approda in Africa, qui rimane affascinato dalle percussioni. Raggiunge in breve la fama con Time for Us, nel quale troviamo Mi Mujer, traccia che lo consacrerà al successo, segnata dalle cadenze tribali di tradizione magrebina.

Nel suo percorso da producer Jaar attraversa le frontiere di diversi generi, già dal suo album d’esordio Space Is Only Noise (2011) mescola all’ambient timbriche techno minimali, giocando con le affinità tra la micro house e il jazz più libero.

 

Anche a Roma, suoni metallici tagliano l’atmosfera cerimoniale dell’organo. Agili riprese sul synth donano al pubblico la sensazione di assistere alla celebrazione del battesimo del postumano. Il sax segmentato ricama la traccia perché chi ascolta ritrovi se stesso in questa trance collettiva, sostenuta dalla scelta di un uso avaro delle luci. 

 

Nicolas Jaar sente ciò che suona e suona ciò che sente. Il suo rapporto con le emozioni è fortissimo, durante tutto il concerto non disciplina il corpo al controllo, ma anzi, appena entra si sbrodola in saluti e ringraziamenti sinceri, quasi meravigliato dalla folla a cui si trova davanti. Durante l’esibizione descrive le situazioni umane che lo hanno portato a comporre la maggior parte dei suoi brani, addirittura si scusa. Ad un certo punto chiede dieci minuti di pausa per riprendersi dal proprio tumulto interiore. A segnarlo sono i volti dei civili palestinesi che immagina fluire davanti a sè, di cui denuncia il genocidio in presa diretta, con un inedito Rio de las Tumbas, che offre agli spettatori.

Non è l’unico omaggio che fa alla capitale, Jaar racconta di aver suonato in Svezia solo una settimana prima e di essersi imbattuto in degli spettatori così algidi da fuggire via a metà spettacolo, allora decide di celebrare la resistenza dei fan romani con quella Space Is Only Noise If You Can See che a suo dire, non proponeva da circa tredici anni. Qualcuno in sala lo ringrazia, c’è chi piange di gioia. Tutti, sbottonandosi alle regole ferree dell’Ennio Morricone, abbandonano le poltrone per dirigersi sotto il palco e in preda all’euforia il teatro, d’un tratto, si dissolve. Al suo posto nascerà una boiler room

Articolo di Carlotta Di Casoli