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Cannes tra Garrone e Sorrentino

Flashback a marzo 2023, Garrone è stato trombato da Cannes. La voce inizia a circolare nei corridoi, e si fa sempre più insistente. Ma come, proprio lui? Il più coccolato dalla Croisette, il nostro enfant prodige, dall’esordio fulminante di Gomorra (Gran premio della giuria) a Dogman, dove addirittura Marcello Fonte aveva strappato la statua di miglior interpretazione maschile. Possibile? Eppure sembra proprio di sì, al regista romano sono stati preferiti il vecchio maestro laico Marco Bellocchio con “Rapito”, l’altro preferito dai francesi, Nanni Moretti e il nuovo cinema di Rohrwacher. Probabilmente la favola Garroniana non aveva impressionato i giudici, abituati a racconti più crudi e schierati, a una rappresentazione dell’immigrazione solo come dolore e sofferenza. Garrone scavalca questa dinamica portando la storia di un ragazzo che potrebbe essere universale; la sua famiglia non è dipinta come disperata, anche la fotografia è calda e piena di vita nella parte in Africa.

La campagna internazionale del film comincia così in netta salita, con una presentazione poco convinta a Venezia. I commenti iniziano però a cambiare al lido, il film piace e anche molto e alla fine strappa il leone d’argento (terza volta in tre anni, dopo Guadagnino e Sorrentino), soccombendo solo al capolavoro “Poor things”. Stravince i David di Donatello, sull’onda dell’arrivo nella shortlist per gli oscar, obiettivo fallito ad esempio con Dogman, tra l’altro con un argomento come l’immigrazione, che di solito non è nelle corde degli americani. Un film che doveva essere il primo grande inciampo nella carriera di Garrone si ritrova ad essere uno dei più clamorosi successi.

Ritorniamo ad oggi, maggio 2024, Sorrentino ritorna a Cannes, e rinnova questo ideale derby a distanza fra i nostri due autori più importanti. Non importa che lo vogliano o no, se si stiano realmente antipatici, i numeri uno devono scontrarsi, e se non lo vogliono fare lo fa la storia per loro. Il cinema è pieno di questi duelli, da Fellini a Visconti, dallo stesso Fellini e Antonioni, da Monicelli a Rossellini, che vinsero addirittura ex aequo al festival di Venezia. I due probabilmente si stimano e rispettano ma le differenze sono evidenti: tanto è grandioso, eccessivo, nell’uso della macchina da presa uno, quanto essenziale l’altro.

Sorrentino è uomo di grandi amori anche nel suo rapporto con gli attori, il suo sodalizio con Toni Servillo ha creato una delle coppie più prolifiche della storia del cinema italiano, Garrone ama gli attori non professionisti, le facce sghembe, strane, che sfuggono alle classificazioni. Sorrentino ama i carrelli, le riprese dall’alto, possiede una grandiosità nella messa in scena che impressiona, Garrone gira molto spesso con camera a mano, utilizzando un sistema semi documentaristico. Le battute di Sorrentino sono solenni, concise, ispirate a una brevità che le fa spesso suonare come sentenze o, per i detrattori, frasi ad effetto buttate alla rinfusa, gli vengono spesso rimproverati i simbolismi, i “fellinismi” e in generale gli atti d’amore con cui consapevolmente o no rende tributo ai suoi maestri. Garrone è più riservato, ha una faccia sognante e un eloquio che spesso non è brillante come i suoi lavori. Sorrentino ha una faccia sorniona, la maschera partenopea che copre con l’ironia e un sospiro, la malinconia esistenziale che si riversa tutta nelle opere. Partenope è anche il nome del suo ultimo film, in lizza per la Palma d’oro fra gli italiani. A parere di chi scrive “è stata la mano di dio” è il miglior Sorrentino da dieci anni a questa parte che però spreca nella parte finale quanto di buono aveva fatto nella prima, e per questo non raggiunge il capolavoro. L’incipit è fulminante e la parte con il monaciello e Luisa Ranieri è visionaria, da Fellini ma quello vero, non di maniera. La storia di formazione in salsa amarcord convince, quando scava nelle viscere, il nostro sembra perdere la perfezione formale dietro cui si nasconde, svelando un calore inaspettato. Purtroppo l’unità della storia è spesso persa a favore del bozzetto, dell’acquerello, del gusto del racconto, del particolare, si cade un po’ nel calligrafismo, anche se gli episodi sono tutti gustosi e meritevoli di attenzione. Il rischio secondo me, già dal titolo che suona un po’ dichiarazione d’intenti, con quel “Partenope” che suona molto esotico e cool, è di vendere agli americani una versione folkloristica/poetica della napoletanità, una versione cliché del nostro paese come la poesia dei panni stesi nei vicoli, che invece di esaltarla, la banalizza.

Di pochi giorni fa è la notizia che in America è stato già preso in distribuzione da A24, una notizia che favorirebbe di non poco la sua candidatura a premi importanti. Spero invece che Sorrentino sia in grado di scampare i pericoli di una visione della serie “com’era verde il mio Vesuvio”, e mostrare la sua poetica; perché si può discutere su quanto la tecnica di Sorrentino sia masturbatoria e indugi in momenti di autocompiacimento gratuiti, su quanto le sue storie siano prive di slancio, a volte, ma non si può discutere il talento registico, sfavillante, una parabola umana e di carriera che ha pochi eguali a livello europeo.

Articolo di Simone Giunta